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Yılmaz Güney


Auteur :
Éditeur : Di Giacomo Editore Date & Lieu : , Roma
Préface : Pages : 132
Traduction : ISBN :
Langue : ItalienFormat : 201x200 mm
Code FIKP : Liv. Tur. Yil. Mar. 1524Thème : Art

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Yılmaz Güney

Yılmaz Güney

Emanuela Martini

Di Giacomo Editore

Un giorno, a Istanbul, sono entrato in una delle maggiori librerie del centro ed ho chiesto dove fosse un reparto dedicato al cinema. Me Io indicarono con un qualche stupore, essendo evidentemente la domanda desueta; ma lo stupore si trasformò in qualcosa a metà strada fra la costernazione e lo sdegno, quando — dopo avere constatato la presenza di alcune traduzioni di noti testi stranieri e di qualche volume turco sul cinema mondiale, ma la assoluta assenza di opere sul cinema turco — chiesi se vi fossero, e dove fossero, testi che riguardassero la cinematografia nazionale. La replica, non so se più ironica o più irritata, fu che il cinema turco era un «cattivo cinema» e che su di esso, pertanto, non valeva la pena di scrivere e meno che mai, anche qualora fosse stato possibile, di leggere. Feci allora timidamente il nome di Yilmaz Güney, di cui avevo appena incontrato la moglie con la quale avevamo parlato della possibilità di andarlo a trovare in prigione. E ironia e irritazione si trasformarono in un attimo di imbarazzato silenzio. Ricordando l’episodio, intendo dire che se noi sappiamo nulla del cinema



PERCHÉ GÜNEY

di Lino Miotiche


Un giorno, a Istanbul, sono entrato in una delle maggiori librerie del centro ed ho chiesto dove fosse un reparto dedicato al cinema. Me Io indicarono con un qualche stupore, essendo evidentemente la domanda desueta; ma lo stupore si trasformò in qualcosa a metà strada fra la costernazione e lo sdegno, quando — dopo avere constatato la presenza di alcune traduzioni di noti testi stranieri e di qualche volume turco sul cinema mondiale, ma la assoluta assenza di opere sul cinema turco — chiesi se vi fossero, e dove fossero, testi che riguardassero la cinematografia nazionale. La replica, non so se più ironica o più irritata, fu che il cinema turco era un «cattivo cinema» e che su di esso, pertanto, non valeva la pena di scrivere e meno che mai, anche qualora fosse stato possibile, di leggere. Feci allora timidamente il nome di Yilmaz Güney, di cui avevo appena incontrato la moglie con la quale avevamo parlato della possibilità di andarlo a trovare in prigione. E ironia e irritazione si trasformarono in un attimo di imbarazzato silenzio. Ricordando l’episodio, intendo dire che se noi sappiamo nulla del cinema turco, non è che in Turchia ne sappiano moltissimo. L’imbarazzo di fronte al nome di Güney, per altro popolarissimo attore ancor prima che regista, era un risultato delle cronache politiche più che di quelle cinematografiche.

Eppure anche in Turchia il cinema ha avuto un proprio itinerario: dai primitivi esordi che lo vedono nascere, «docu mentari-stico», nel ’ 14 e, «a soggetto», tre anni dopo, grazie al giornalista Sedat Simavi, alla Kemal Film, sorta negli anni '20 e al teatro filmato di Muhsin Eruğrul, fino alla nuova generazione del ’39, di provenienza teatrale anch’essa ma con già maggiori attenzioni alla specificità del linguaggio filmico. Quest’epoca di formazione può comunque essere definita una lunga protostoria, almeno fino al ’49, quando il successo (di pubblico) e le ambizioni (formali) di Colpite la puttana di Lüfti Akad segnano il passaggio all’età adulta del cinema turco, nel quale si affaccia una generazione di giovani cineasti: a parte il già citato Akad, Atif Yilmaz, Osman Seden, Metin Erksan e Memduh Ün che firmerà il miglior film del decennio I tre compagni. Questi giovani, che realizzeranno ora epopee popolari, ora racconti realistici, ora commedie strapaesane, ora film di denuncia, renderanno abbastanza effervescenti gli anni '50, durante i quali, peraltro, danno il meglio di sé anche i cineasti della transizione (la generazione del ’39): come Sakir Sirmali, Aydin Arakon, Orhon Ari-burnu, che firmano ad inizio decennio i titoli più significativi delle proprie filmografie. II cinema, che ha avuto lungo gli anni '40 e ’50 un lungo periodo d’incubazione, scoppia come fenomeno di massa negli anni ’60, anche per l’awenuta «liberalizzazione» che schiude la vita intellettuale turca alle idee e alle correnti europee più avanzate. II cinema allarga il proprio pubblico e il sistema produttivo si rafforza talmente — pur in un contesto dove la redditività dei prodotti proviene quasi esclusivamente dal mercato interno — che il numero dei film prodotti oscilla verso le ultime stagioni del decennio fra i 200 e i 300 film annui. In tale contesto, non soltanto diventa intensa l’attività della generazione del ’48 — fino a rischiare di essere inflat-tiva, come nel caso di Yilmaz — ma è possibile la formazione di una «nouvelle vague»: registi come Halit Refiğ che viene dalla critica c illustra con particolare pertinenza aspetti della condizione femminile; Duygu Sağiroğlu, ex scenografo teatrale che si fa apprezzare per il robusto piglio realistico; Ertem Görec che con Quelli che si svegliano all’alba firma, a metà decennio, un efficacissimo ritratto di vita operaia. Anche in Turchia, insomma, il decennio delle «nouvelles vagues» di tutto il mondo, è un periodo di fervide innovazioni e di effervescente sommovimento: e molti degli autori citati (di cui chi scrive ha avuto l’opportunità di intrawedere appena qualche film, in occasione di alcune proiezioni retrospettive, appositamente organizzate nel corso di un Festival del Cinema Balcanico, nel 1979) meriterebbero quasi certamente una maggiore attenzione di quella solitamente loro dedicata anche dalle più minuziose cronache degli anni '60. Il fatto è che, in nulla aiutato dallo stato e dai poteri pubblici — più avvezzi a censurare e proibire che a promuovere e diffondere —, il cinema turco non riesce neppure nel periodo della sua maggiore fiorescenza a varcare i confini patri. E, d’altronde, l’irrigidirsi del quadro politico e il contemporaneo dilagare della televisione, in un mercato che, come già si è ricordato, può fare affidamento quasi soltanto sui proventi interni, pongono rapidamente fine al periodo del «boom» cinematografico turco. Le stagioni che si collocano fra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70 sono già di profonda crisi, merceologica, produttiva e ispirativa. Tornano quindi a prevalere i melodrammi lacrimosi, i film danzanti e canterini, le comme-diole provinciali destinate al pubblico popolare e disdegnate dagli intellettuali: è il «cattivo cinema» cui alludeva il libraio di Istanbul.
In questo quadro complessivamente grigio, e prigioniero del proprio stesso provincialismo, si afferma e si distingue la figura di Yilmaz Güney. Figlio d’operaio e autodidatta, Güney, tra il ’58 e il ’66, prende a lavorare nel cinema di Ankara come aiuto regista, sceneggiatore, attore divenendo popolarissimo protagonista di una innumerevole quantità di film a largo consumo ed apparendo contemporaneamente nelle cronache per le sue accese idee di sinistra che gli costano più di un processo e una prima condanna al carcere per un racconto accusato di «propaganda sovversiva». Güney non è certamente l’unico nel panorama cinematografico turco degli anni ’70, ché anche il cinema di Yavuz Özkan, Erden Kiral, Ornar Kavur, Ali Özgcntürk — per non citare che qualche nome (cui vanno aggiunti, comunque, quelli di Zeki Ökten e Şerif Gören, legati a Güney) — si distingue dalla paccottiglia provinciale dominante. Ma, dopo i suoi esordi nella regia nei secondi anni ’60, e a partire da Speranza che apre il nuovo decennio, Güney è l’unico a perseguire con coerenza un rigoroso progetto di cinema, contemporaneamente impegnato politicamente ed elaborato stilisticamente; il solo a riuscire a varcare i confini patri con le proprie opere, interessando i festival e la critica internazionali come mai altri cineasti turchi prima di lui; quello che p'ù d’ogni altri riesce ad assumere l’onere di apparire, in patria e all’estero, il portabandiera di un cinema che deve contemporaneamente lottare contro la censura politica interna e contro la censura economica dei mercati stranieri, contro i nuovi «media» che avanzano e contro la propria stessa tradizione di degradata e spesso semiartigianale spettacolarità popolaresca. Figura solitaria e, pur nella solidarietà e nell’ammirazione di molti, specie fra i giovani intellettuali, sostanzialmente isolata, Güney vede crescere attorno a sé, fin dall’inizio degli anni ’70, la propria stessa leggenda. Vi danno il loro (involontario) contributo i militari, che hanno ripreso il potere e la cui «giustizia» dopo avere comminato a Güney una prima condanna a 26 mesi di carcere lo riprocessa per un altro reato e lo condanna, questa volta a diciotto anni. E, caso senza precedenti nella storia del cinema, Güney, dalla sua cella piena di testi di Enver Hoxa (di cui, ahinoi, si dice convinto seguace), spedisce lettere, fa filtrare proclami, rilascia interviste; e, soprattutto, vince la maggiore condanna inflittagli dal regime — quella a porre fine all’attività cinematografica — scrivendo dettagliatissime sceneggiature e affidandone la regia al proprio assistente (come per L’inquietudine e Yol realizzati per Güney e su sue istruzioni da Şerif Gören) o ad un collega fidato (come per 11 gregge e II nemico filmati da Zeki Ökten). E’ probabilmente l’attenzione internazionale e l’interessamento al «caso Güney» di vasti strati dell’«intellighenzia» europea a rendere meno duro, e in qualche modo non privo di varchi, il carcere, la cui istituzionale disumanità il regista e i suoi collaboratori consegnano ad alcune indimenticabili sequenze di violenza carceraria. Indubbiamente, comunque, la vitalità creativa di Güney (a parte i film realizzati per interposta persona, escono dalla prigione molte altre sceneggiature, tre romanzi, un volume di lettere...) è la maggiore vittoria del regista sul regime: consacrata quindi, nell’82, dalla fuga dal carcere e dalla contemporanea vittoria del suo Yol (ex-aequo con Mis sing) al festival di Cannes di quell'anno. Purtroppo non sapremo come avrebbe potuto proseguire la leggenda in un esilio cosi lontano dai luoghi e dalle ragioni per cui Güney aveva lottato per oltre venti anni. Poco dopo avere realizzato il drammatico Le mur, Güney muore, infatti, a soli 47 anni, in esilio e chiudendo in modo drammatico la propria esistenza leggendaria.

La Mostra Internazionale del Nuovo Cinema, la Mostra Internazionale del Cinema Libero, la Cineteca Comunale di Bologna, la Cooperativa Nuovo Cinema e la Cooperativa Lab 80 hanno inteso, con questa retrospettiva «itinerante» dedicata a Yilmaz Güney — e che vede a Pesaro '86 la propria «anteprima» — rendere omaggio alla figura del cineasta prematuramente scomparso e promuovere un’attenzione al suo cinema, e al cinema turco in generale, che è il tributo minimo che degli uomini liberi possano offrire ad un uomo, e un intellettuale, che fece della libertà propria e della liberazione degli altri un ideale cui sacrificare tutto se stesso.
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