
Storia di un Popolo e della Sua Lotta
Namo Aziz
Manifestolibri
I rapimento e la condanna a morte di Abdullah Ocalan hanno riportato la drammatica condizione e la lunghissima lotta delle popolazioni curde sotto gli occhi dell'opinione pubblica mondiale.
Questo volume, opera di un intellettuale curdo che vive in Germania, offre un'accurata descrizione del paese che non c'è, della storia, delle condizioni di vita, della lotta secolare dei curdi in Turchia, Iran e Irak.
Ma non si tratta solo di un compendio di storia del Kurdistan: l'autore intreccia infatti, nella sua narrazione, le vicende storiche generali con il destino e le esperienze della sua propria famiglia.
Completa il volume un lungo scritto di Abdullah Ocalan, compilato durante l'esilio romano nel gennaio del 1999, in cui il leader del PKK racconta il suo Kurdistan, la sua storia, le aspirazioni e le speranze che hanno guidato la resistenza del popolo curdo contro ogni oppressione.
Namo Aziz (Halabdja, Kurdistan irakeno, 1958) vive da diciassette anni in Germania. Studioso di orientalistica, giornalista di fama internazionale, collabora assiduamente con le principali testate della Germania federale (Die Zeit, Der Spiegel, Suddeutsche Zeitung, Frankfurter Allgemeine).
PREFAZIONE
di Dino Frisullo
Far rifiorire il legno secco, far sbocciare rose dai sassi. Così Abdullah Ocalan riassume il suo programma politico all’inizio della sua autobiografia, carpita da Namo Aziz nel corso del breve e drammatico esilio romano del leader kurdo. Anch’io quando lo incontrai, recluso contro la sua volontà in una stanza fredda e inospitale, vissi lo stesso smarrimento del fine intellettuale kurdo-irakeno di fronte a un «politico di statura mondiale» vestito di poveri panni a quadrettoni, un mondo nello sguardo. Capace oggi di far germogliare speranza persino dalla nuda pietra della cella della morte di Imrali. Capace d’incarnare, con la sua infanzia contadina a semolino e sudore e il suo lineare apprendistato politico, il mito antico e fondativo del fabbro Kawa, il demiurgo liberatore del fuoco del Newroz che fa rivivere un popolo «più morto dei morti nei loro sepolcri».
Sulla trama bruciante d’una storia rimossa, questo libro narra l’incontro inevitabile di due percorsi di vita. In un gioco di repentini flash-back e scenari mutevoli Aziz intreccia la vicenda storica del suo popolo con i ricordi familiari e la memoria del villaggio d’origine, del quale i soldati irakeni al tempo d’un terremoto s’auguravano che fosse «inghiottito dalla terra, strappato via dalle inondazioni e sepolto dalle valanghe», e poi l’esperienza precoce della morte dal cielo nella città martire Halabdja, l’esodo, le fughe a dorso di mulo, l’amarezza dell’esilio, il ritorno con passaporto tedesco e tesserino dello Spiegel e ciò nonostante la prigione e la tortura, questa volta per mano dei soldati turchi... E infine quella telefonata notturna dal Kurdistan della madre che nel tempo dell’ira, quando «le ceneri della sua coscienza non si concedevano più altro desiderio se non quello della morte», dice serena del sequestro di Ocalan: «Figlio, oggi finalmente i kurdi sono un popolo solo».
La vita dolorosa di Aziz e di milioni di uomini e donne s’incontra così con la biografia d’un uomo che, come forse solo Mao Tze-Dong, è riuscito con pochi compagni a suscitare, anzi resuscitare una travolgente umanissima coscienza collettiva, innescando una rivoluzione.
Uso questa parola a ragion veduta. Le pagine dedicate da Ocalan e da Aziz all’ultimo quindicennio, nel Kurdistan turco e in quel grande laboratorio che è stata «l’Accademia» del Pkk nel Golan, vanno lette con l’occhio della mente rivolto a una gaUeria di centinaia di migliaia di volti. Giovani e anziani, uomini e soprattutto donne. Contadini provenienti da Agri, dove il reddito prò capite è di 774 dollari, un decimo di quello di Istanbul, o da Sirnak, che conta un insegnante per ottantasei bambini in età scolare contro un rapporto di uno a ventiquattro ad Ankara analfabeti che imparano insieme, nella montagna libanese o kurda, a leggere, a combattere e a vivere a testa alta. Donne e ragazze che nelle unità guerrigliere superano insieme una soggezione ancestrale e il tabù che impediva loro di elaborare e denunciare stupri e violenze delle truppe di occupazione. Studenti che riscoprono la lingua dei loro avi, rimossa con vergogna da due generazioni. Un popolo intero che rifiuta tutto ciò che è «feudale» (insulto più atroce non esiste, nelle file del movimento kurdo), ossia ciò che è sopraffazione di classe, di sesso, di censo, di casta, di cultura, di lingua, di religione. Una rivoluzione culturale, prima che politica e militare, pari a quella vissuta (su scala ben più limitata nell’ampiezza e nel tempo) nella nostra Resistenza. Giorgio Bocca e Pietro Ingrao se ne sono accorti, con pochi altri.
Io ho vissuto tutto questo, nelle poche settimane trascorse in una cella di quel monumento della resistenza civile kurda che è il carcere di Diyarbakir2. Ho visto i detenuti chini a compitare insieme sui giornali di regime l’abbicci della lingua e insieme della Critica della politica e dell’economia politica. Ho visto i loro Occhi illuminarsi quando parlavano e cantavano delle montagne, simbolo e luogo di liberazione, e incupirsi dello stesso dolore quando rievocavano la tortura. Ho avvertito l’inalienabilità dei diritti umani, la semplice grandezza dell’umanità dispiegata proprio laddove è più radicalmente negata. Anche a prezzo della vita, perché altri vivano. Ho fatto una semplice moltiplicazione, trentacinque detenuti per milioni, e ho capito che nessuna esibizione di cingoli e di forche, nessun bagno di sangue potrà fermarli. Conquisteranno non i precari e angusti confini di uno Stato kurdo, ma qualcosa di ben più solido: il diritto di autodeterminare il proprio futuro e di convivere, da diversi ed uguali, con i turchi, gli arabi, i persiani, gli altri popoli di quel crogiolo che è il Medio oriente.
Da kurdi, certo. Questo libro fa giustizia degli alibi con i quali l’Europa riveste la sua cattiva coscienza, aggrappandosi ai contrasti intestini, alle varianti linguistiche o all’assimilazione forzosa dei kurdi per definire ideologia o mito la loro unitaria specificità storico-culturale e il loro forte legame con un territorio omogeneo chiamato Kurdistan3. Ne emerge il costante intreccio umano e politico fra le diverse parti in cui è stato smembrato, il suo riconoscersi volta a volta nella bandiera della repubblica dell’Ararat o di Mahabad, nell’epica di Barzani padre o, finalmente, nella moderna liberazione nazionale e sociale innescata e impersonata da Ocalan. Una staffetta in cui il testimone passa di mano in mano, di territorio in territorio - ed oggi è nel simbolico quadrilatero fra la regione del Botan, Diyarbakir, l’isola di limali e la diaspora europea che colmò di colori, speranze e lacrime le piazze gelide di Roma, in quell’inverno del ’98 che avrebbe potuto cambiare il mondo.
Ad limali e a Diyarbakir guardano oggi tutti i kurdi, che si riconoscano o no nel Pkk. Ocalan è colui che ha posto la questione kurda sotto i riflettori della politica internazionale. Dunque ha vinto. È il loro Mandela. Per questo lo si vuole uccidere, nell’illusione folle di tutti i regimi autoritari di poter decapitare la storia. Viene da pensare al livore della caccia a Guevara in America Latina, trentanni fa: anche allora dietro ai colonnelli c’era la Cia. Ed è carico di suggestioni il parallelo fra le due grandi irruzioni sulla scena della storia di popoli rimossi, i campesinos nativi e diseredati del Sudamerica e i kurdi nel cuore dell’Eurasia. Non è un caso che i kurdi si definiscano i chapanechi d’Europa, e viceversa.
Come e più radicalmente degli zapatisti, i kurdi di Turchia hanno operato, con il disarmo unilaterale e il ritiro d’un esercito popolare che è stato tutt’uno con la ricostruzione dell’identità collettiva, una scelta di «contaminazione democratica» - loro sì, non l’Europa. Un movimento di liberazione dipinto come assatanata banda terrorista ha inviato due gruppi di «messaggeri di pace», uno dalla montagna l’altro dall’esilio, ai quali l’esercito non ha potuto non tributare un’accoglienza onorevole, salvo seppellirli poi in carcere. Gli scioperi della fame nelle prigioni, la marcia su Ankara delle Madri, l’uso alternativo delle munucipalità, l’attivazione di reti di azione civile nel doppio terremoto del sisma e della guerra, il ritorno dei profughi e degli esuli... Del resto il movimento kurdo non si sta «riconvertendo» dalla guerra all’azione nonviolenta, perché la sua resistenza è sempre stata prima civile poi militare. Direnmé: corpi nudi che resistono alla tortura nelle prigioni, ben prima di vestire la divisa verde oliva in montagna.
Questa strategia è più pericolosa della stessa guerriglia, perché toglie ogni alibi al verminaio di generali golpisti, gladiatori, trafficanti, agenti e politicanti corrotti che formano il «partito della guerra», al potere reale in Turchia dal putsch dell’80 a oggi. Ben rappresentato politicamente dai Lupi grigi, cementato dal kemalismo nazionalista panturco all’interno e dall’aggressiva proiezione neo-ottomana all’estero, egemone in parlamento e negli apparati come nella finanza e nel fiume dell’economia illegale, forte del secondo esercito della Nato, dell’asse con Israele e di un complesso militare-industriale di prim’ordine (grazie alle tecnologie occidentali, italiane in prima fila), padrone fra non molto, con il reattore in via d’installazione sulla faglia sismica di Mersin, anche dell’arma nucleare - questo intreccio di potere, così simile a quello che gestì in Italia la strategia della tensione, crollerebbe senza l’economia, la politica, l’ideologia di guerra. Una guerra paradossalmente ignota all’Onu come ai nostri governi, tanto più autentica e atroce in quanto mai dichiarata.
Per questo la parola «pace» è eretica in Turchia, e a Diyarbakir s’incarcerano i bambini che la scrivono sui muri. Per questo è rivoluzionario il messaggio di convivenza e democrazia del condannato di Imrali. I kurdi, con la loro cultura fiera e tollerante e con la vivacità intellettuale della loro diaspora, sono oggi il lievito di una possibile rinascenza democratica in Turchia e di un rimodellamento dell’intero Medio oriente: ciò che poteva essere la rivoluzione palestinese, ma non l’antico nazionalismo panarabo né l’attuale spinta fondamentalista, entrambe ideologie esclusive.
Per questo Ocalan è stato sequestrato, il suo movimento è criminalizzato come quant’altri mai, la Turchia ha sfiorato la guerra per precipitare la resa dei conti con un nemico mortale del suo e di tutti gli assetti di potere e i regimi dell’area. Per questo una campagna di stampa d’inusitata violenza ha costruito in Italia il mostro e gli ha impedito di trovare asilo e giustizia, salvo ricredersi troppo tardi, quand’era ormai persa la grande occasione di forzare il corso della storia. Per questo ciò che i kurdi chiamano «la grande cospirazione» ha giocato d’anticipo rispetto a una diplomazia dal basso che, in Europa e segnatamente in Italia, stava mettendo in crisi il cinismo delle feluche e degli affari.
Forse chi legge questo libro conoscerà già l’esito della scon-volgente partita che un uomo e un popolo stanno giocando sul filo del rasoio fra speranza e disperazione, fra riconciliazione e guerra totale, fra vita e morte. Forse l’Europa avrà già compresa la portata del tremendo errore commesso archiviando il problema kurdo e legittimando senza contropartite l’ultimo e il più longevo dei regimi autoritari europei del Novecento, che completando il genocidio degli armeni, avviando la persecuzione dei kurdi e istituzionalizzando l’apartheid fu maestro al suo nascere del futuro nazismo. Attraverso questo libro un popolo parla a noi, di noi. A ciascuno le sue responsabilità: chi scrive ne avverte il carico, e non intende sgravarsene.
Dicembre ’99
Note
1 M. JÉGO in Le Monde 14-15.3.99, cit. da M. Franza in Limes n. 3/99, p. 98
2 Cfr. il mio Se questa è Europa, Odradek 1999. Mentre scrivo, sto decidendo di tornare a Diyarbakir con una delegazione di pace e riaffrontare il mio processo.
5 La pubblicistica italiana del periodo cruciale a cavallo fra il ‘98 e il ‘99 è colma di esempi. Basti citare per tutti gli editoriali di Sergio Romano sulla stampa quotidiana, o l’esordio del pur documentato saggio di Galata in Ltmes, cit.
Introduzione
La prima idea di questo libro data dall’ottobre ’98, allorché il leader kurdo Abdullah Ocalan lasciò la valle della Bekaa, nel territorio montuoso di confine fra la Siria e il Libano.
In realtà non avevo ancora progettato un libro di storia su un popolo che a tutt’oggi, agli occhi degli europei, si situa più nella sfera del romanzo e del mito che nella realtà storica. Ma con l’arrivo di Ocalan a Roma, nel novembre di quell’anno, il problema kurdo assunse da un giorno all’altro una dimensione nuova. Divenne un conflitto europeo reale e tangibile. Come Ocalan dall’Europa ha promesso ai kurdi di battersi per il loro riconoscimento come popolo e per la liberazione del Kurdistan, così io mi ripromisi allora di scrivere questo libro. Un libro su un popolo la cui storia risale ben più addietro di quanto lascino supporre i cliché alla Karl May sul «Kurdistan selvaggio», e il cui presente è ormai esperienza comune di ogni europeo attraverso la diffusione mondiale della diaspora. Un libro su una terra che non è affatto situata in un altro mondo.
Per scrivere la storia d’un popolo occorre forza d’animo e pazienza. L’uno e l’altra, lo confesso, negli ultimi anni dentro di me si andavano esaurendo. Mi frullavano nella memoria, come fosse ieri, le parole di mio padre: «Se un tempo gli europei avessero mosso un dito in favore dei kurdi, noi oggi saremmo ancora nella nostra terra». Una frase che per decenni mi ha tenuto avvinto alla storia della democrazia tedesca con un misto di aspettativa e repulsione. Fin da quando vivevo in Kurdistan senza alcuna idea della storia kurda, non avendo d’altronde mai visto in faccia un tedesco e nulla sapendo del cinismo della politica europea, portavo impressa in mente l’idea che gli europei avrebbero dovuto fare qualcosa per i kurdi.
Un debito pesa sulla coscienza europea a proposito della terra promessa chiamata Kurdistan.
La storia kurda è intessuta di lamenti di esseri umani e della loro inascoltata invocazione di giustizia. Essa è la narrazione d’una lotta secolare, segnata da crudeltà e asprezze senza precedenti da quando i kurdi sono stati smembrati fra cinque Stati, a parte la minuscola enclave kurda in Azerbaidjan. Nelle montagne kurde ancor oggi c’è chi si batte e muore ogni giorno per il riconoscimento della sua identità nazionale e la garanzia dei suoi diritti civili e culturali. E lo scenario di questa lotta è ben più ampio. Dalla parte turca il macello è alimentato dal sostegno garantito dall’Europa, nella forma di innumerevoli forniture di armamenti fuori ordinanza dell’esercito tedesco, aiuti economici dalla Germania e introiti valutari legati ai flussi turistici. Non meno decisivo è il valore strategico della Turchia come avamposto della Nato. Gli europei sono coinvolti nella questione kurda ben più da presso di quanto vogliano ammettere.
Nel novembre dello scorso anno ho avuto l’opportunità di vedere Abdullah Ocalan per un’intervista per conto della rivista Der Spiegel. Già in precedenza l’avevo incontrato due volte, in Siria e in Libano, per altrettante interviste. E stata sorprendente la percezione di trovarmi di fronte un politico di statura mondiale, proteso verso un obiettivo ben preciso: la pace per i kurdi. Mi fu subito chiaro che avevo sottovalutato il suo carisma e la sua intelligenza. Tuttora non riesco a spiegarmi come possa confidare nella pace un uomo la cui lotta per la libertà si radica nell’esperienza della violenza quotidiana ed ha conosciuto rappresaglie senza fine. Restai ammirato della forza delle sue convinzioni.
La nostra conversazione non seguì, come pure era da attendersi, il filo della narrazione di un conflitto armato, dei suoi scontri e delle sue conflagrazioni. Ocalan parlava invece di offerte unilaterali di tregua, di aspettative riposte nelle democrazie europee e di una soluzione diplomatica per i kurdi. Mi assicurò più volte che per lui la vita d’un turco non ha assolutamente minor valore della vita di un kurdo. E aggiungeva che i popoli interessati devono usarsi reciprocamente la stessa tolleranza e apertura di vedute che dimostrano nel rapporto quotidiano con gli ospiti. Lui stesso, sottolineava, credeva pur sempre a una mediazione europea per la soluzione della questione kurda, ed era disponibile a prendere in considerazione ogni possibile proposta.
Questo avveniva nel novembre dello scorso anno. Difficilmente Ocalan poteva immaginare che gli europei avrebbero rimosso ancora una volta la questione kurda, nonostante la quotidiana ossessiva attenzione della stampa mondiale. Presto divenne chiaro che la presenza di Ocalan, per quanto estesi fossero in ogni paese europeo i sentimenti di simpatia per la causa kurda, era la presenza di un ospite indesiderato. Persino il suo diritto di adire, in stato di detenzione, una corte internazionale di giustizia o anche la stessa giustizia tedesca, è stato rigettato in nome dei paventati conflitti interni o dell’urto, che si profilava inevitabile, con un partner Nato come la Turchia.
L’odissea di Ocalan assunse forme grottesche quando le autorità olandesi responsabili per la sicurezza negarono al pilota dell’aereo su cui viaggiava l’autorizzazione per uno scalo tecnico per rifornimento di carburante in un aeroporto olandese. Le porte d’Europa rimasero sbarrate alla richiesta d’ingresso di Ocalan, con la stessa sordità dimostrata nei confronti del grido del popolo kurdo nella sua terra. È indicativo del contegno dell’Europa il fatto che, nonostante la convivenza con due milioni di kurdi, nonostante l’apertura delle frontiere e le convenzioni del diritto intemazionale, il suo angolo visuale si sia rivelato non meno ristretto di quanto fosse ai tempi dell’Impero ottomano. I bambini a volte credono di rendersi invisibili semplicemente chiudendo gli occhi. Mi pare che l’Europa abbia avuto esattamente lo stesso atteggiamento, quando negli ultimi mesi è stata chiamata a occuparsi della questione kurda.
È noto a tutti come è andata a finire. Ocalan è stato sequestrato e portato via dall’ambasciata greca a Nairobi nottetempo, con la complicità della Grecia, degli Usa e di Israele. Ne è scaturito qualcosa che rinvia ad un film dell orrore, una messinscena di forza e d’impotenza che ha prodotto una psicosi di massa fra i kurdi. Le immagini dell’uomo dallo sguardo vitreo e dai movimenti inconsulti, dovuti non già alla disperazione ma all’iniezione di droghe nelle sue vene, hanno fatto il giro del mondo. Ocalan mi aveva ripetuto più volte che la Cia e il Mossad non lo avrebbero lasciato tranquillo. Sapeva che avrebbero potuto eliminarlo, ma che mai avrebbero potuto spegnere l’amore del popolo kurdo per la sua terra e la sua sete di libertà.
Aveva ragione. I paesi che si sono affrettati a cercare di toglierlo di mezzo, considerandolo una minaccia alla propria quiete, hanno ottenuto l’effetto esattamente contrario. Grazie a loro Ocalan è divenuto un martire, un eroe indelebile, un simbolo nel quale da un momento all’altro si sono identificati trenta milioni di kurdi in tutto il mondo. Sono dilagate fin nell arcipela¬go delle Filippine le manifestazioni di kurdi che si riconoscono ...