La bibliothèque numérique kurde (BNK)
Retour au resultats
Imprimer cette page

Cristiani del Kurdistan


Auteur :
Éditeur : Jouvence Date & Lieu : 2003, Roma
Préface : Pages : 336
Traduction : ISBN : 88-7801-348-X
Langue : ItalienFormat : 125x195 mm
Code FIKP : Liv. Ita. Gal. Cri. 43Thème : Religion

Présentation
Table des Matières Introduction Identité PDF
Cristiani del Kurdistan

Versions

Cristiani del Kurdistan

Mirella Galletti

Jouvence


I cristiani di rito siriaco (assiri, caldei e siro-cattolici) sono originari del Kurdistan e parlano dialetti neoara-maici. Sono uno dei primi popoli ad aver abbracciato il Cristianesimo. Nel Medioevo la Chiesa d’Oriente manifestò una forza di espansione prodigiosa e inviò i suoi missionari a evangelizzare il mondo, diffondendosi in molte regioni dell’Asia Centrale e dell’Estremo Oriente. Nel XIII secolo contava oltre sessanta milioni di fedeli contro due milioni della fine del XX secolo. Questo è il primo libro sulla storia delle Chiese cristiane del Kurdistan, dalle origini (quando l’area era divisa tra impero persiano e impero romano d’Oriente) ai nostri giorni, quando le difficoltà di integrazione negli stati nazionali (Iraq, Iran, Siria, Turchia) hanno indotto molti cristiani a emigrare. L’opera è corredata da interviste a testimoni significativi, realizzate dall’autrice nell’arco di un ventennio, e da un breve profilo delle letterature neoaramaiche cristiane a cura di Alessandro Mengozzi.



Mirella Galletti, già professore a contratto presso le Università di Bologna e Trieste, ha svolto attività seminariale presso le Università di Erbil e di Sulaimaniya, nel Kurdistan iracheno (1994). Si occupa di storia moderna e contemporanea del Vicino e Medio Oriente, con particolare interesse per il mondo curdo. Membro dell’Institut Kurde de Paris e del Reference-Group della Biblioteca curda di Stoccolma, fa parte del Comitato di redazione delle riviste Études Kurdes (Institut Kurde de Paris) e La Porta d'Oriente (direttore Franco Cardini). 1 suoi lavori scientifici sono stati tradotti in diverse lingue europee e orientali. Ha pubblicato tra l’altro: I curdi nella storia, 1990; I Curdi: un popolo transnazionale, a cura di Mirella Gaileni, 1999; Favole curde ovvero l’astuzia degli animali, a cura di Mirella Galletti e Kawa Goron, 2001 ; Le relazioni tra Italia e Kurdistan, 2001 ; Western Images of thè Woman’s Role in Kurdish Society, in: “Women of a Non-State Nation: The Kurds , a cura di Shahrzad Mojab, 2001; Incontri con Li società del Kurdistan, 2002.

In copertina:
Il testo dell'Oratio Dominica (Padre Nostro) in lingua e scrittura sirìaca orientale è disposto su cerchi concentrici daU'arlista, il diacono iuarash tl-Bet Qashisha Matti (nato a Bel Beyda, Iraq 1950, laureatosi alIVnieersità di Baghdad); al centro la parola shmakh "il tuo nome”, formula di rispetto per indicare la divinità in tutto il Vicino Oriente, oltre che soggetto del secondo verso del "Padre Nostro '. Il Cristianesimo kurdistano e Li sua arte sacra tradizionalmente evitano la rappresentazione di esseri viventi e privilegiano la parola come arte e la scrittura come forma di decorazione; il testo dei Padre Nostro è poi "ecumenico" per eccellenza, accomunando i cristiani di ogni credo e appartenenza e non offendendo neppure la sensibilità dei musulmani; per i cristiani arameofoni del Kurdistan è poi tradizionale motivo di vanto che la loro lingua sia molto simile se non coincidente a quella dell'originale pronunciato da Gesù.

 



INTRODUZIONE


Nella sua presentazione, l’Autrice mi dedica una troppo generosa menzione. La “disponibilità” e la “comprensione dovrebbero essere doti comuni a chiunque faccia professione d’insegnante e si preoccupi, se è in condizione di farlo, di mettere il pubblico dei lettori colti a contatto con i progressi della ricerca scientifica. Il latto che un tale, doveroso atteggiamento, venga segnalato come caratteristica non troppo comune è purtroppo un non rassicurante segno dei tempi.

Chi scrive non è né storico del cristianesimo, né orientalista: non ha insomma alcun titolo, a parte la cortesia dell’Autrice e dell’Editore che lo hanno invitato a farlo, per introdurre un libro come questo. Ma a occuparmi secondo le mie possibilità di curdi, eli Vicino Oriente, di cristiani d’Asia e di molte altre cose hanno congiurato, nel mio caso, una lontana passione per il mondo cosiddetto “orientale , quindi le circostanze che hanno tatto di me uno studioso — non so quanto valido — dell immagine del mondo musulmano in Occidente e dei rapporti tra Cristianità occidentale e Islam nel medioevo, infine le circostanze odierne che obbligano chiunque voglia restare un uomo libero e non cader vittima del "pensiero unico dei mass media a fare qualcosa di più d'uno sforzo per capire che cosa sta succedendo in questi mesi tra Mediterraneo e continente asiatico Ce non solo...). Mirella Galletti è stata mia generosa, valorosa collaboratrice all’interno dello “Europe-Near East Centre” nel lungo periodo nel quale ne sono stato Presidente; e continua ad esserlo come collaboratrice della rivista “La Porta d’Oriente”, da me diretta. Queste righe non sono pertanto solo il risultato di una reciproca cortesia; rappresentano anzitutto e soprattutto una parte d’un lavoro comune.

I curdi, la gloriosa etnia iranica in seno alla quale nel XII secolo è fiorito Salah al-Din Yusuf ibn Ayyub, il Saladino, costituiscono una comunità complessa che ha però cominciato a essere anche un problema per l’equilibrio dell’area caucasico-vicinorientale solo dalla fine del XIX secolo. Da quando cioè un mondo nel quale fino ad allora i due grandi imperi egemoni e tra loro rivali, il turco e il persiano, avevano mantenuto una politica multietnica fondata sulla dura disciplina ma anche sul saggio equilibrio e sul rispetto delle tradizioni (una politica "tollerante”, diremmo noi) fu investito dal contagio d’un'epidemia d'origine occidentale, lentamente incubata tra XII e XVII secolo e scoppiata drammaticamente tra la fine del Sette e i primi del Novecento: il nazionalismo.

L’idea di nazione si basa sul principio che gruppi umani i quali dispongano di una tradizione collaudata da una certa durata generazionale di comune insediamento su un territorio (magari caratterizzato dalla presenza di “confini naturali”) e di una lingua, magari di una fede religiosa comune, possano riconoscersi - e abbiano il diritto di farlo - anche in istituzioni politiche e giuridiche comuni. Il punto è che i curdi, popolazione iranica parlante un idioma iranico nordoccidentale e nella maggioranza musulmana stranita, sono oltre trenta milioni distribuiti attualmente in cinque diversi stati: ma già prima della guerra del 1914-18 erano divisi tra Turchia e Persia, a parte qualche gruppo vivente ai margini meridionali dell’impero czarista. Per quanto il trattato di Sèvres del 1920 riconoscesse, il diritto dei curdi a uno stato nazionale, il successivo trattato di Losanna, del 1923, assegnava l’Armenia alla nuova Turchia nazionalista e demandava alla Società delle Nazioni il problema dell’area di Mosul, contesa tra turchi e inglesi: il problema curdo sembrava inghiottito dall’inerte massa cartacea dei trattati e dalla brutalità delle forze effettivamente egemoni. La Società delle Nazioni, nel 1925, decise per l’annessione all’Iraq, sotto mandato britannico, dell’area di Mosul inclusi nella quale erano i preziosi giacimenti petroliferi della regione di Kirkuk. In questo modo, mentre i curdi della zona persiana restavano inclusi nell’impero neopersiano di Reza Khan (che nel 1935 sarebbe divenuto Reza Shah Pahlevi, imperatore di quello che veniva adesso denominato Iran), quegli ex-sudditi ottomani si vedevano ripartiti tra la Turchia di Mustafà Remai, l’Iraq sotto mandato britannico e la Siria governata dall'Alto Commissariato francese insediato a Beirut (dove proprio in quell'anno nasceva la repubblica del Libano) e distinta in quattro distretti autonomi uno dei quali, quello di Aleppo, includeva appunto l’area insediata da popolazioni curde.

I curdi hanno una loro solida identità linguistico-nazio-nale: ma il Kurdistan, questa regione contesa, negata e fatta a pezzi, è un'area-mosaico, nella quale "da sempre” (il “sempre " della storia: in questo caso, da parecchi secoli, si può dire almeno dal VII-VIII d.C.) convivono etnie differenti - arabi, iranici, turcomanni (naturalmente uralo-altaici), ebrei (alcuni dei quali di idioma neoaramaico) - e anche differenti fedi o confessioni religiose: i curdi sono difatti sunniti, ma curdi sono anche gli yezidi (la setta nata dalla divinizzazione del califfo Yaz.id, il nemico degli sciiti, che venera (Angelo-Pavone, identificabile quasi del tutto con Lucifero, e che a rigore non si può definire musulmana); mentre sunniti come i curdi ma di etnia differente dalla loro sono gli arabi, numerosi nella regione di Mosul, e i turcomanni, che sono numerosi soprattutto nel Kurdistan irakeno (o in quello che prima della guerra del marzo-aprile 2003 si poteva definir tale) e che parlano turco, però lo scrivono in caratteri arabi salvo l’opzione di usare quelli latini, comune tra i turcomanni che evidentemante sono — a differenza dei curdi, per le noti ragioni - filoturchi e che già il sultano usava per reprimere le rivolte. Vi sono infine i cristiani, oggetto di questo studio: parlano idiomi di ceppo semitico nord-occidentale, cioè dialetti neoaramaici, e sotto il profilo liturgico seguono il rito siriaco. Sono tra i cristiani più antichi del mondo: si fanno risalire ad Abgar EX, che nel II secolo d.C. regnava su Edessa (ogi Urfa in Turchia) capitale dell’Osroene e ritengono di essere stati evangelizzati dall’apostolo Tommaso. Si distinguono in siro-cattolici, siro-ortodossi, caldei cattolici e assiri nestoriani. All’attività missionaria cattolica e ortodossa in tutta l’area si è aggiunta ed è diventata forte negli ultimi tempi anche quella protestante. La situazione, precaria dalla prima guerra mondiale, si è aggravata progressivamente già durante la seconda ed è divenuta invivibile durante la “guerra dimenticata” irakeno-iraniana del settembre 1980-agosto 1988: è durante questo periodo che numerose comunità cristiane della zona hanno cercato rifugio negli Stati Uniti, in Canada, nell’Europa occidentale, in Nuova Zelanda e in Australia.

Verso la fine di quel sanguinoso conflitto, passato quasi sotto silenzio dai media occidentali, ebbe luogo l’operazione che il governo baath di Saddam Hussein chiamò, eufemisticamente ma non troppo, al-Antal, dal nome dell’ottava sura del Corano che legittima l’espropriazione del bottino di guerra e la sua ridistribuzione tra i fedeli. L’area petrolifera dell’Iraq nord-orientale, contesa con l’Iran, fu sgombrata dai centri nemici abitati dai curdi, accusati d’intelligenza con il nemico. Tra il febbraio e il settembre del 1988 furono distrutti metodicamente quasi 1300 villaggi curdi e massacrate fra le 50.000 e le 100.000 persone, donne e bambini compresi. Si obbligarono circa 800.000 curdi a insediarsi in “città collettive” (eufemismo per campi di concentramento), sovente molto lontane dal Kurdistan. In questo agghiacciante contesto si situa il massacro della città di Halabja: 5000 curdi vittime del gas nervino fornito a Saddam dalla Repubblica Democratica Tedesca. Ma le armi che avevano consentito al dittatore irakeno di sostenere l’offensiva iraniana; ch’era a sua volta, non dimentichiamolo, la risposta a un’aggressione irakena fondata sul principio - divenuto famoso nel 2002 - della “guerra preventiva”: il governo di Baghdad sospettava un’intenzione di quello di Teheran di bloccare gli sbocchi petroliferi del Golfo Persico. Mentre l’Unione Sovietica manteneva in occasione di quel conflitto un atteggiamento ambiguo, gli Stati Uniti e i paesi occidentali si schieravano tutti, compatti anche se cercando di non far troppo rumore, al fianco “del presidente Saddam Hus-sein , non ancora né tiranno né tanto meno “nuovo Hitler”, bensì considerato capo di un governo senza dubbio autoritario e magari totalitario, ma laico e progressista. Al massimo, si poteva dire di lui - come Ri detto in autorevole sede governativa statunitense - a son ot a bitch, but our son of a bitch. Non dimentichiamo che - coni è stato autorevolmente richiamato da Zbigniew Brzezinski — durante gli anni Ottanta la diplomazia e la strategia statunitensi stavano usando una complessa e articolata “strategia a tenaglia , da una parte utilizzando i fondamentalisti wahabiti provenienti dalla penisola arabica attraverso il Pakistan nel jihad afghano contro l’Unione Sovietica, dall'altra sostenendo Saddam nel suo sforzo bellico diretto contro l'Iran khomeinista in modo da impedire a quest’ultimo di sostenere a sua volta la lotta di liberazione del popolo afghano e assicurarsi così, all’indomani di essa, l’egemonia su un area geopoliticamen-te nevralgica per il controllo dell’Asia centrale e importante per l’accesso alla regione petrolifera caspico-turkmena. Saddam Hussein venne per molti anni, naturalmente a prezzi adeguati, regolarmente rifornito di armi dagli Stati Uniti e dall’Europa. I rapporti tra l’Iraq saddamista e gli Stati Uniti, in particolare, erano ottimi: quando 1 allora inviato speciale del presidente Reagan, cioè Donald Rumsfeld, incontrò il rais a Baghdad il 20 dicembre 1983 - e fu un incontro molto cordiale -, gli irakeni avevano già fatto “largo uso di gas tossici contro l’esercito iraniano . Il che era lungi dall’essere ignorato sia a Washington, sia nelle capitali della libera Europa, sia all’ONU. Così come nessuno di questi autorevoli centri decisionali ignorava i crimini commessi tra la primavera del 1991 c l’inverno del 1992 dalle forze armate di Saddam Hussein nei confronti sia dei curdi del nord, sia degli sciiti del sud dell’Iraq, entrambi sollevatisi in seguito alla sconfitta del loro oppressore nella guerra del Golfo e convinti che le truppe americane, presenti sul posto o quasi, avrebbero appoggiato la sollevazione. Ma ai curdi del nord e agli sciiti del sud sfuggiva che il regime saddami-sta, battuto militarmente e oggetto di un duro embargo, faceva tuttavia più comodo se restava in piedi: giustificando con la sua sopravvivenza, ormai divenuta inoffensiva all’esterno dell’Iraq (e all’interno limitata anche dalla sia pur illegittima istituzione delle no-fly zones) l’occupazione del Golfo Persico da parte statunitense, e determinando il pretesto per il mantenimento di una robusta, remunerativa importazione di armi difensive contro il “pericolo irakeno" da parte dei paesi confinanti. Strategia geopolitica, controllo dell’area petrolifera del Golfo - dalla quale dipendevano il 14% dell’approvvigionamento statunitense, ma ben l'80% di quello europeo - e rilancio della produzione industriale convergevano nel suggerire al governo statunitense e all’Occidente di far la politica dello struzzo dinanzi ai nuovi crimini del dittatore che avevano da poco umiliato militarmente e che avrebbero, allora, avuto tutte le buone ragioni (e la finalmente buona occasione) di abbattere.

Il momento politicamente opportuno a tal fine, però, non era ancora venuto: né era all’orizzonte. Curdi e sciiti potevano continuare a soffrire, a sperare e ad attendere. Ma si è visto dopo il marzo-aprile del 2003 che né gli uni, né gli altri avevano dimenticato che il cinismo degli americani e dei loro alleati ed accoliti era stato la causa del prolungamento delle loro sofferenze, finché esse erano state politicamente utili.

Si può pensare quel che si vuole della “guerra preventiva” in Iraq e dell’unilateralismo che, almeno tra estate 2002 e primavera 2003, sembra essere stato il carattere ideologico “vincente” dell’amministrazione Bush, del realismo geopolitico dei suoi collaboratori Cheney, Rumsfeld e Rice e del “trotzkismo” dei suoi consiglieri new conservative (del resto a suo tempo sostenuti appunto da Cheney): ma non si può certo negare che, comunque, con una guerra che a mio avviso è stata illegittima sul piano del diritto internazionale, inopportuna su quello politico e molto pericolosa su quello dell’equilibrio nell’area vicino-orientale e in tutto il mondo, l’Iraq è stato comunque liberato da un’odiosa e sanguinaria tirannia. Il punto non è neppure adesso, in fondo, il mantenimento dell’unità “nazionale" irakena: dal momento che non esiste in fondo una nazione irakena come tale, salvo forse per gli arabo-sunniti del centro del paese (che, in effetti, non sembrano mai essere stati animati da speciali sentimenti antisaddamisti). Dal punto di vista curdo, appare molto arduo sperare che all’inizio del XXI secolo la comunità internazionale, rappresentata daH'ONU o egemonizzata daH’"impero" americano, riesca a rimediare all’ingiustizia consumata ai danni della nazione curda circa ottant’anni fa, tra Sèvres e Losanna. Il problema di un Kurdistan libero e unito è subordinato a scelte complesse che appaiono ancora molto lontane se non impossibili, e che dovrebbero comunque trovare concordi 1 tirchia, Siria e Iran. Così stando le cose, l’alibi del mantenimento dell'unità irakena e l’esigenza di evitare ulteriori elementi d'instabilità in una regione del mondo di per sé già tiri troppo instabile congiureranno nel mantenere diviso il popolo curdo: a parte la possibilità di una maggiore autonomia o di una qualche forma di autogoverno del Kurdistan irakeno — il meno che gli americani dovrebbero ai curdi per averli appoggiati nella guerra contro Saddam: ma forse un po’ più del massimo ch’essi potrebbero fare senza ulteriormente irritare i loro alleati turchi, preoccupati che una qualunque autonomia curdo-irakena potrebbe costituire un esempio, un modello e un catalizzatore per i curdi di casa loro, - nessun’altra prospettiva appare concretamente a portata di mano.

E, comunque, nulla di tutto ciò risolverebbe i problemi dei cristiani del Kurdistan: i quali sono dispersi, divisi in confessioni diverse, obiettivamente incerti sulla loro stessa identità etnica (“né arabi, né curdi”), preoccupati per il fenomeno della nuova intolleranza musulmana che ha accompagnato un po’ dovunque il crescere del fondamentalismo islamico, ' considerati comunque gente sospetta e spesso in qualche modo “inferiore” nel contesto musulmano nel quale si trova immersa e che avvertono in genere con molta chiarezza - o, almeno, tra loro sono molti quelli che hanno intelligenza e cultura sufficienti a far sì che se ne rendano conto - che il mondo occidentale, Chiese cristiane comprese, li ignora, non è neppure troppo capace di distinguerli nel groviglio di genti, idiomi e fedi vicinorientali e tutto sommato li considera un inutile e fastidioso fattore di complicazione.

Il libro di Mirella Galletti è stato scritto per impedire, o quanto meno per allontanare, lo spettro di un etnocidio. I cristiani del Kurdistan sono in obiettivo pericolo di estinzione: potranno sopravvivere come individui, essi o i loro discendenti; ma sono le loro culture che rischiano di scomparire vittime dell’alienazione, della perdita di contatto con le regioni d’origine, con le migrazioni forzate o spontanee, dell’omologazione dei costumi e dei generi di vita correlata al processo di globalizzazione, della politica anche involontariamente egemonica delle stesse organizzazioni missionarie cristiane cattoliche, ortodosse e protestanti che senza dubbio hanno cura di aiutare le persone ma che non hanno interesse alla salvaguardia e alla persistenza di comunità “ereticali”. Questo libro è un atto di fede nella loro vitalità e un atto di coraggio diretto a salvare un bene comune del genere umano, un tesoro di cultura che non deve andare perduto.

Franco Cardini



A mia nonna materna Silvia Bencivenni,
dotta fede semplice e concreta,
che mi ba insegnato i rudimenti del Cristianesimo
e a mio zio materno Novello Gozzi,
punto fermo per noi nipoti.

Presentazione Dell’Autrice

Vorrei ricordare due grandi studiosi che hanno attraversato la seconda metà del XX secolo e ai quali devo tanto: l’arabista Paolo Minganti (1925-1978) e il padre caldeo Joseph Habbi (1940-2000).

Paolo Minganti nell'autunno del 1978, poche settimane prima della morte improvvisa, mi chiese: “Lei che si occupa di curdi, perché non allarga il suo campo di indagine anche ai cristiani della regione? Perché non scrive un articolo per Oriente Moderilo?.

I fatti della vita hanno ritardato la risposta a quella richiesta, ma non hanno portato a dimenticarla.
Né posso tacere sulla grande amicizia che mi legava a padre Joseph Habbi, membro dell'Accademia delle Scienze Irachena, direttore della rivista caldea Bayn al-Nahrayn. Un profondo studioso e prelato di eccezionali doti umane. Andava oltre il settarismo etnico-religioso in cui molti ristagnano. Apprezzava il mio impegno verso il mondo curdo e aveva tradotto in arabo la mia analisi della letteratura italiana sui curdi e il Kurdistan dal XIII al XIX secolo. Durante i nostri incontri faceva spesso la battuta: “Nel 1980 ero a Mosul e avevo tempo per tradurre. Adesso a Baghdad ho troppi impegni".

La sua morte, avvenuta nell'ottobre 2C00 per un incidente stradale, mentre dall’Iraq tornava in Italia, è stata una grande perdita umana e culturale. Durante l’elaborazione di questo libro mi ripetevo: “Se ci fosse padre Habbi gli chiederei... gli mostrerei...”. Più passa il tempo più ci si accorge della sua profondità e dell’ampio spettro delle sue conoscenze. Era un ponte tra ''Iraq e l’Europa.

I lavori per la stesura del libro si sono conclusi prima ...

 




Fondation-Institut kurde de Paris © 2024
BIBLIOTHEQUE
Informations pratiques
Informations légales
PROJET
Historique
Partenaires
LISTE
Thèmes
Auteurs
Éditeurs
Langues
Revues