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La Peste la Fame la Guerra


Auteur :
Éditeur : Hoepli Date & Lieu : 1987, Milano
Préface : Pages : 336
Traduction : ISBN : 88-203-1615-3
Langue : ItalienFormat : 135x215 mm
Code FIKP : Liv. Ita. Mo. Pes. N°2655Thème : Général

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La Peste la Fame la Guerra

La Peste la Fame la Guerra

Ettore Mo

Hoepli

Ayacucho, nella Sierra peruviana, dove si confrontano militari e guerriglieri di Sendero Luminoso. “La regione di Ayacucho è il cimitero di questa ‘sporca guerra’. Un cimitero senza croci, di poveri contadini analfabeti, ammazzati dagli uni o dagli altri, non essendo loro consentito il privilegio della neutralità... in un bosco di Capitan Pampa, dove affiorano centinaia di ossa umane, vediamo una minuscola treccia bruna con un fermaglio di metallo e il cranio di un bambino traforato da un proiettile. Chi è stato?
Sendero? I militari?... Su un camion che ci accompagna a Quanta diamo un passaggio a una ragazza che è lì ferma con un fagotto. Si chiama Mercedes, ha 14 anni, è molto graziosa e la gonna a fiori e un pulloverino rosa con qualche buco e con qualche macchia che il sapone non è riuscito a lavare, non tolgono nulla alla sua grazia adolescente. La sola piccola vanità che si è concessa è una spilla di plastica azzurra nei capelli.

“Non conosco la tua lingua, perciò ti saluto in spagnolo, querìda linda ...



Ettore Mo
è nato il 1 aprile 1932 a Borgomanero in provincia di Novara. Vive ad Arona con la moglie inglese e tre figli.
Dopo aver tentato la carriera di cantante lirico e praticato svariati lavori precari (di barista, insegnante, infermiere), inizia a scrivere nel 1963 sul “Corriere della Sera”, di cui è attualmente inviato, prevalentemente in zone di guerra.

Ha ottenuto per la sua attività numerosi riconoscimenti, tra questi: il Premiolino nel 1980, il Premio Max David per gli inviati speciali nel 1981, il Premio Saint Vincent per il giornalismo nel 1983, il Premio Giornalista dell’Anno nel 1985, il Premio Hemingaway nel 1985.

Indice. Introduzione - La peste, la fame, la guerra - Diario dall’Afghanistan -Nel Kurdistan, con i guerriglieri - Iran, Irak: nel nome di Allah - Medio Oriente - Cambogia - India - America Latina - Carbone d’Europa: fine di un’epoca.

 



INTRODUZIONE


Ayacucho, nella Sierra peruviana, dove si confrontano militari e guerriglieri di Sendero Luminoso. “La regione di Ayacucho è il cimitero di questa ‘sporca guerra’. Un cimitero senza croci, di poveri contadini analfabeti, ammazzati dagli uni o dagli altri, non essendo loro consentito il privilegio della neutralità... in un bosco di Capitan Pampa, dove affiorano centinaia di ossa umane, vediamo una minuscola treccia bruna con un fermaglio di metallo e il cranio di un bambino traforato da un proiettile. Chi è stato? Sendero? I militari?... Su un camion che ci accompagna a Quanta diamo un passaggio a una ragazza che è lì ferma con un fagotto. Si chiama Mercedes, ha 14 anni, è molto graziosa e la gonna a fiori e un pulloverino rosa con qualche buco e con qualche macchia che il sapone non è riuscito a lavare, non tolgono nulla alla sua grazia adolescente. La sola piccola vanità che si è concessa è una spilla di plastica azzurra nei capelli.

“Non conosco la tua lingua, perciò ti saluto in spagnolo, querìda linda Mercedes. Mi auguro che la tua testa di puro velluto nero, qual è oggi, assuma con gli anni il naturale candore dell’età avanzata, e che il tuo fermaglino di plastica dietro l’orecchio assista indisturbato al tranquillo passaggio delle stagioni dei tuoi capelli, invece di affiorare, chissà, in qualche remota sterpaglia, accanto a una inerte trecciolina bruna... mi duole Mercedes che le speranze siano così poche”.

Ettore Mo i suoi articoli dal fronte delle carestie, delle guerre, dei massacri, delle guerriglie, delle catastrofi li scrive così. Con la competenza di chi sa che non i grandi disegni strategici, ma la dissipazione delle piccole speranze individuali e la negazione dei destini personali rendono terribili e grandiose le tragedie.

Ettore Mo, di mestiere, fa il testimone oculare. Va, prende nota e riferisce sul “Corriere della Sera”; per una sorta di necessità che gli è arrivata addosso, più che per una scelta personale. Dice: “Molti mi chiedono se ho paura quando mi trovo alla guerra, o con i guerriglieri, quando si spara. Certo che ho paura. Ma questa paura non è niente. E un obbligo subirla, come per altri è un obbligo presentarsi puntuali in ufficio. Fa parte del mio lavoro. E però il vero spavento lo provo quando mi metto alla macchina da scrivere, col foglio bianco davanti, e devo raccontare. Bisogna farlo con stile, evitare i facili effetti che ti si propongono come tentazioni, evitare insomma che quello che si è visto, una volta messo sulla carta diventi falso”.

Ettore Mo è nato il primo giorno di aprile del 1932 a Borgo-manero in provincia di Novara, figlio di un operaio della Siai Marchetti.

La sua vocazione di giramondo la scoperse a diciotto anni, dopo aver ottenuto la licenza di liceo classico. Allora, per la verità, si proponeva di diventare cantante d’opera.

“Faceva parte dei sogni dei ragazzi, dei ragazzi poveri che volevano uscire dal ghetto. O si diventava pugili, oppure cantanti. Io il fisico per salire sul ring proprio non lo avevo, considerata la mia minuscola statura. Mi iscrissi alla facoltà di lingue di Ca’ Foscari a Venezia. Per guadagnarmi da vivere facevo l’istitutore per i ciechi presso la congregazione dei Confi-gliachi di Padova. Accompagnavo i ciechi all’università, leggevo loro i testi di studio, di medicina, di filosofia, di diritto. Tutte cose imparate e diventate utili più tardi. Ho fatto pochi esami all’università, il tempo che il lavoro mi lasciava libero lo impegnavo nello studio del canto con un maestro padovano.

“Voce di tenore leggero, bella, mi allenavo sulle partiture dell’‘Elisir d’amore’ e della ‘Manon’ di Massenet. Abbandonai quando mi resi conto di non essere un fenomeno, e nellopera anche la parte più piccola richiede un piccolo fenomeno, altrimenti non resisti. Un bel giorno partii per l’isola di Jersey, sulla Manica. L’università organizzava di questi viaggi a vantaggio di chi voleva imparare le lingue. Per mantenermi facevo il barista, lo sguattero, il cameriere. D’estate guadagnavo bene. Non tornai più a Padova.

“Sempre facendo mestieri precari arrivai fino ad Amburgo. Poi andai a Madrid. Ho insegnato francese al collegio ‘De Nuestra Senora de las maravillas’ a Guadalquivir. La meraviglia è che allora, quasi, non sapevo il francese. In compenso in quegli anni, mentre i mei allievi facevano scarsi progressi nella lingua di Racine, imparavo lo spagnolo.

“Dopo qualche tempo tornai in Inghilterra, a Londra, perché mi era venuta la voglia di fare il giornalista. Ma non sapevo come incominciare, e dovetti rassegnarmi, per tirare avanti, a fare l’infermiere in un ospedale degli incurabili: lavare lenzuola, lavare i pazienti. Insomma sei mesi all’inferno, prima di imbarcarmi come cameriere su una nave passeggeri della ‘P. & O.’ delle Orient Lines. India, Pacifico, Caraibi... si girava il mondo, stavo con la ciurma. Momenti di allegria e tante risse, perché noi italiani eravamo guardati con sospetto dagli inglesi. Qualche cicatrice mi è rimasta.

“Mi raggiunse in Giappone una lettera di Piero Ottone che avevo conosciuto quand’era corrispondente del ‘Corriere della Sera’ a Londra, e al quale avevo chiesto aiuto per essere inserito nel mondo dei giornali. Mi raccomandava, in una sosta prevista della mia nave a Napoli, di presentarmi a Giovanni Ansaldo, armatore e allora direttore del ‘Mattino’ di Napoli. Perché Ansaldo si era detto molto curioso, lui armatore e giornalista, di un marinaio-giornalista come me, dotato di un nome cosi corto. Ma quando arrivai a Napoli Ansaldo non c’era e l’appuntamento con il giornalismo fu rinviato”.

Mo lo si ritrova, dopo la parentesi marinara, cameriere ben remunerato al Saint Bernard di Parigi, caffè e ristorante in Place de la Sorbonne frequentato dai professori della famosa università parigina, da intellettuali che gli danno confidenza, e lo accolgono al loro tavolo, a turno di lavoro finito, incuriositi da quel giovanotto di così varia esperienza, ma anche di varia curiosità e di vaste letture, che sa stare alle loro conversazioni, che serve in tavola e sogna di fare il giornalista. Tra gli habitués del St. Bernard c’è anche August Le Breton autore di “Rififi”. “Un poco scrittore un poco bandito” dice Mo, e diventano quasi amici.

“Così è che imparai, finalmente, il francese, studiando a modo mio alla Sorbona”.

Infine, dopo aver bussato con insistenza a tante porte, Ettore Mo è accolto nella confraternita del giornalismo. All’ufficio di corrispondenza da Londra del “Corriere della Sera”. Ma se l’abbazia gli ha schiuso le porte è per metterlo nei ruoli del fratello converso, a far servizi di bassa cucina, non gli fanno certo cantar messa. Sono di sua competenza le notizie di piccolo rilievo, la firma gli è interdetta. “Era titolare dell’ufficio Alfredo Pieroni, affiancato da Pietro Sormani. Pieroni mi correggeva i compiti e mi diceva: ‘Mo, lei scrive vecchio’ e io a disperarmi e a dirmi: ‘Sta a vedere che ho sbagliato un’altra volta, che mi tocca ancora cambiare mestiere’. Ma Pieroni intanto il mestiere me lo insegnava”. Nel frattempo trova moglie, inglese. “Una donna stupenda che mi ha dato tre figli stupendi”. Dopo Londra, cinque anni a Roma, sempre nel retrobottega, e poi cinque anni a Milano, redattore alla pagina degli spettacoli. Messo in platea a sentire i cantanti d’opera filare le romanze che da ragazzo aveva sognato di cantare.

A quarantacinque anni, nel 1977, si trova sempre al punto di partenza, con i sogni della giovinezza ancora tutti chiusi nel cassetto e che incominciano a fare polvere. È quasi il momento di progettare un dignitoso declino, dietro le quinte di un palco-scenico, dove sono gli altri a fare il personaggio. E però Mo ha una assoluta incapacità di invecchiare.

Ettore Mo ha adesso cinquantacinque anni ed è intento a dissiparli con l’entusiasmo dei venti, quasi nella persuasione che la vita per lui comincerà domani quando bisognerà pure mettersi in riga.

Ha un fisico robusto ma minuscolo, un nome più minuscolo ancora. Sembra un Golem scivolato dalla mano del suo creatore prima dell’ultimo tocco. Però con dentro il suo talento da investire e da moltiplicare. Ha una faccia che ha più rughe del deserto libico, due occhi verdi e limpidi di una inguaribile infanzia. Fa quello per cui si sente nato, il testimone oculare, appunto: andare, vedere e riferire. Sapendo che per fare questo bisogna sapere quello che bisogna vedere e quello che si deve riferire. Coi tempi che corrono è anche una vocazione controcorrente.

Meno di dieci anni fa, probabilmente per un caso, lo spedirono in Iran a capire Khomeini, un servizio di routine, assegnatogli forse perché qualcuno era in vacanza, e comunque lui sa le lingue. Restituì articoli ricchi di competenza e di fascino.
L’apprendistato fatto negli ospedali, tra i tavoli dei bar e dei ristoranti, nelle cambuse delle navi, continuando a leggere il leggibile in quattro lingue imparate per sopravvivere, gli avevano distillato dentro la virtù sciamanica di immedesimarsi nelle più svariate situazioni. Così è che direttori di giornali e lettori lo hanno scoperto, con qualche ritardo. Dopo quel primo viaggio non si è più fermato, nc ci sono più state pause nel suo raccontare.

Questo libro raccoglie i suoi articoli degli ultimi dieci anni, tutti scritti per il “Corriere della Sera”. Resoconti dall’Afghanistan, dove si è travestito da mujiaidin, dal Kurdistan, dove si è fatto kurdo, dal Sudamerica, dove si è mescolato coi poveri e coi guerriglieri, dalla Cambogia, dal Vietnam, da Sabra e Chatila, dove arrivò per primo a riferire di un orribile massacro, dai paesi dove il deserto cancella la vita dell’uomo.

Ma lo strano è che questo volume, una volta messo insieme per accumulo di testi scritti nelle più diverse occasioni, non sembra proprio una semplice raccolta di articoli. E compatto, un libro che si e scritto da sé. È cresciuto brano dopo brano su di un disegno oggettivamente unitario: ed è il ritratto dell’altra faccia del pianeta, quella che rimane in ombra, dove le maledizioni bibliche resistono: terribile vaccino che immunizza dalla fame, dalla guerra, dalla peste l’Occidente della società affluente che ha convertito il dolore in spettacolo.

L’altra faccia del pianeta dalla quale Mo non ricava soltanto storie di re e di generali, di strategie globali e statistiche di moribondi. Ma anche quelle dei piccoli smarriti protagonisti, altrimenti anonimi, di un grande martirio. Raccontando anche il colore dei loro cieli, i profumi dei loro fiori, i sapori della loro frutta, l’allegria delle loro feste, il delirio delle loro speranze e il sorriso delle ragazze.

Libera nos a peste, fame et bello.

m.s., ottobre 1987



Capitolo 1
La peste, la fame, la guerra

La Peste


Il 17 aprile del 1986 la centrale nucleare di Chemobyl è esplosa. Una nuvola di polvere radioattiva ha occupato i cieli di Europa portando ovunque la sua peste invisibile. Le terre gelate dei lapponi furono, e restano, tra le più inquinate.

Ottobre 1986

Franrike (Svezia) - Basta la lama di un coltello (dieci, dodici centimetri al massimo) conficcata nella nuca, appena dietro le corna, e l’occhio della renna si annebbia prima di farsi vitreo: poi l’uomo affonda il coltello nel collo turgido e caldo, recidendo la giugulare, e il sangue, ora, fiotta giù sull’erba, sempre più denso e scuro. E appena cominciata la mattanza che, in un paio di giorni, vedrà lo sterminio di centinaia di capi: ma domani, per il grosso, useranno la pistola e le bestie cadranno in fretta, senza quasi accorgersi, il cervello fulminato.

Il macello delle renne è, in questa stagione, un fatto previsto e scontato, l’ultimo atto di un rituale cruento che ha le sue scadenze fisse e contempla le grandi migrazioni dei greggi in primavera e in autunno, le tenzoni amorose prima degli accoppiamenti sfrenati, il raduno, la separazione e la marchiatura dei nuovi nati: ma quest’anno l’avvenimento si svolge in un clima da olocausto ecologico, perché gran parte degli animali ha fatto indigestione di cesio 137, la sostanza sprigionata in aprile dalla centrale nucleare di Chernobyl.

.....




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