DEBITI
Dedico questo libro a tre persone che sanno l’atrocità del carcere e la necessità della liberazione. A una donna, Silvia Baraldini, prezioso raggio di sole in giorni tempestosi. E a due uomini, il turco Akin Birdal e il kurdo Abdullah Ocalan, che, nella diversità dei ruoli, hanno dimostrato entrambi di saper convivere con la minaccia della morte, amare la vita e costruire la pace.
Lo dedico anche ai miei genitori, a mio fratello e alle mie sorelle, che hanno avuto il coraggio di capire e condividere le mie scelte. Ai miei compagni di cella, che mi hanno accolto come un fratello e che un giorno riabbrac-cerò liberi, in un paese libero. A tutti gli amici e ai compagni che mi riportarono in Italia, e anche ad un amico che non c’era più ma che è stato con me ugualmente, Luigi Di Liegro, e a due persone che allora non c’erano ancora: Marta e Irene. Mi piace pensare che Alessia e Alfonso abbiano concepito Marta, o la sua idea, unendo il solidale al dilettevole quando vennero ad attendermi fuori dalla prigione di Diyarbakir...
Il mio diario dal carcere s’interrompe il 29 aprile del ’98 alla vigilia della prima udienza del Tribunale speciale che mi lasciò libero. Ritornai dopo un mese per la sentenza, che fu abbastanza mite da consentire alla Turchia di liberarsi della mia presenza, e abbastanza dura da “sconsigliarmi” di tornare ancora. La corte d’appello l’ha poi annullata, ed ha imposto di riaprire il processo sulla base della più grave accusa originaria: “istigazione al separatismo”. Ribadisco qui il mio impegno di non sottrarmi al processo, e di ritornare comunque a Diyarbakir. Da libero viaggiatore, amico del popolo kurdo e del popolo turco, in un paese libero, democratico e finalmente in pace. Oppure da processato fra i processati e prigioniero fra i prigionieri, se il governo italiano, cui compete una speciale responsabilità per l’allontanamento di Ocalan e il suo tardivo status di rifugiato, non saprà intervenire efficacemente per impedire che la morte di Ocalan seppellisca ogni speranza di pace e ogni illusione di diritto internazionale.
Infine una speranza. Speranza in kurdo si dice Hevi, ed è il nome di una giovane donna che ha conosciuto la tortura e la guerra e ha dovuto lasciare il suo paese. Che possa vivere a lungo e felice in Kurdistan, fra le sua montagne e i suoi fiumi, senza più guerra né tortura, e per molti, molti anni possa cantare e insegnare a molti, molti bambini le sue canzoni, nella sua bella lingua oggi proibita.
D.F. Roma, ottobre 1999
Prefazione
L’Assalto Al Cielo
Questo libro è una testimonianza e un atto d’accusa. Un atto dovuto, scrivevo un anno fa nella prefazione alla prima versione instant del mio diario manoscritto in cella che costituisce gran parte di questo libro. Dovuto ai miei compagni di prigione, al popolo sterminato di quel Newroz in piazza Batikent, alle donne che manifestarono per la mia scarcerazione dinanzi al tribunale speciale di Diyarbakir e furono bastonate dalla polizia. Un omaggio all'umanità rinchiusa “nel grande o nel piccolo carcere”, come dice l'intellettuale turco Haluk Gerger, in quel tempo anch 'egli prigioniero.
Il “grande carcere" è quella regione della Turchia più estesa dell’Italia, biblico giardino dell’Eden, i cui monti danno origine al Tigri e all’Eufrate e dettero i natali alla civiltà mediterranea. Ben prima di Marco Polo questa regione, insieme alle altre sue parti oggi smembrate fra quattro Stati, si chiamava Kurdistan. Ma nella Turchia moderna pronunciare questa parola è reato.
Nel fascio di fogli fitti di appunti e storie, che alla vigilia della prima udienza del mio processo riuscii a strappare alle unghie rapaci del capo-guardiano Haci Receb e ad affidare al console, la censura carceraria ignara d’italiano avrebbe cercato subito la parola Kurdistan, e l’altra sigla proibita: Pkk, Partito dei Lavoratori del Kurdistan. Per questo nel manoscritto esse divennero rispettivamente “Utopia” e “partito di Utopia ”, e la dizione non è cambiata in questo libro. Utopia. Sogno, e prassi di liberazione di un’umanità colonizzata, negata, torturata e dispersa. Se c’è un luogo in cui più utopica può apparire l’ansia di libertà, questo è il Kurdistan - e in particolare le sue prigioni. Se in un luogo simbolico batte il cuore della resistenza kurda, è il carcere speciale di Diyarbakir, destinato un giorno a farsi sacrario non meno della caserma di via Tasso o delle Fosse Ardeatine a Roma. In quel carcere, prima che nelle città o sulle montagne, è nata la resistenza kurda.
Berxwedàn jihanè, la resistenza è vita, gridano i kurdi in tutto il mondo, e non pensano solo né principalmente alla lotta armata in montagna, ma alla resistenza di centinaia di migliaia di corpi e cervelli imprigionati ... |